Quelli che aspettano…cosa non si sa.

Uno degli aspetti più divertenti dell’era 2.0 è che c’è sempre qualcuno con la risposta pronta. L’altro giorno infatti non ho fatto in tempo a twittare l’ultimo post che subito è arrivata la sentenza: siamo una generazione attendista!

Confesso che la cosa mi ha un po’ spiazzato, lì per lì mi sono forse anche un po’ offesa. Non mi riconosco in una definizione così netta e negativa, ma invece di rifiutarlo a priori ho cercato di capire le motivazioni di tale giudizio.

Certamente non siamo animati da spiriti rivoluzionari come le generazioni che ci hanno preceduto, così come è indubbio che si sia perso per strada il sentimento collettivo, collante necessario per l’agire sociale. Ma credo che ci fosse dell’altro dietro quel giudizio così nitido.

Riflettendoci attentamente infatti questo atteggiamento attendista non è da ricercare soltanto a livello macro. Proviamo a guardarci intorno o magari anche allo specchio. Quanti da mesi/anni aspettano che qualcuno gli dia l’occasione giusta per dare una svolta alla propria vita? E non sto parlando di comprare un biglietto della lotteria, ma di cose molto più concrete, che magari sarebbero effettivamente alla portata di mano se solo ci si sforzasse un pochino di più.

Allora forse potremmo tradurre quel “attendista” come l’incapacità di osare, di crearsi le opportunità per realizzarsi. Secondo alcuni questo atteggiamento deriva dalla bambagia in cui siamo cresciuti, in fin dei conti con quello che abbiamo riusciamo ad andare avanti senza farci mancare smartphones e pay tv. Così torna inevitabilmente in mente quando da piccoli i genitori dicevano “Vi ci vorrebbe un po’ di fame”. Che avessero ragione?

Non so se il mio follower intendeva questo con il suo commento, lo ringrazio comunque per avermi dato un ottimo spunto di riflessione.

Che generazione siamo?

Sono stata latitante per un bel po’ di tempo, forse troppo. Stavo forse per abbandonare il progetto. Confesso infatti che la mancanza di interazione mi ha scoraggiato parecchio ma soprattutto mi ha fatto dubitare dell’utilità (se così si può definire) di questo blog.
Ultimamente però ho ricevuto diversi spunti, che mi hanno convinto nuovamente del fatto che una pagina dove poter parlare di noi trentenni possa essere interessante. Perciò rieccomi qui.
Riparto subito con una domanda, quella del titolo, come rispondereste?
Nel prossimo post ripartiamo da qui, perciò stay tuned ma soprattutto dite la vostra!

La generazione dei trentenni è quella migliore?

La scelta di quella che ho chiamato “Ospitata n°2” non è stata per nulla casuale. Uno degli aspetti che trovo maggiormente interessante nell’analizzare la nostra generazione è il confronto con le altre. Questo non tanto per determinare chi sia migliore o peggiore ma quanto perché ritengo possa rappresentare uno dei criteri sulla base del quale misurare l’evoluzione dell’intera società.

Vi presento quindi subito l’opinione espressa da uno dei ragazzi intervistati:

la nostra generazione é in assoluto la migliore perché ha avuto una formazione classica ma si è integrata perfettamente con le nuove tecnologie.

Si tratta di un’affermazione certamente forte, che da un lato non può che inorgoglire ma dall’altro, credo, possa anche spaventare. Ma prima di vedere ciò che ne deriva vorrei fermarmi ad analizzarla. Senza dubbio noi siamo forse gli ultimi che hanno avuto un’educazione classica (fatta di ricerche sui libri e non su wikipedia). Altrettanto certamente siamo stati forse i primi a crescere insieme alle nuove tecnologie.

Ma la combinazione di questi fattori fa di noi i migliori?

Io francamente non so rispondere con assoluta certezza. Se infatti guardo alle generazioni precedenti mi sento sempre piuttosto piccola. I problemi che la maggior parte di loro hanno dovuto affrontare avevano a che fare con la sopravvivenza. Non voglio fare della semplice retorica ma trovo davvero che sia un peccato che certe memorie si stiano perdendo.

Riguardo alle generazioni successive ho un grosso punto interrogativo, ma forse è giusto che sia così visto che loro rappresentano il futuro.

Tornando invece alle conseguenze di un’affermazione così forte. Assumendo che sia vera, ci rendiamo conto che ciò comporterebbe una grande responsabilità sociale? Penso che tra i rottamatori si leverà un coro di “Sì”.

Ebbene siamo pronti per prenderci una tale responsabilità? Per onorare un impegno simile?

A voi l’ardua sentenza..

Ospitata n°2 – Sempre noi di Max Pezzali feat. J-Ax

Nei giorni scorsi mi è capitato di riascoltare la canzone di Max Pezzali feat. J Ax e, come era accaduto già al primo ascolto, mi ci sono riconosciuta molto.

Ho deciso di postarla perché credo che in qualche modo rappresenti noi trentenni..

..che del Web abbiamo visto l’alba, i nonni con la zappa, 
noi col Modem-56k. Il nastro del Walkman mi dava l’energia, 
riavvolto con la penna risparmiavo batteria 
e quelli che credono ancora a un futuro a colori siamo sempre noi, 
perché abbiamo i ricordi in bianco e nero, come il GAME BOY™. 

Anche voi vi ci riconoscete?

L’apatia di una generazione

In questa giornata elettorale è inevitabile parlare di politica, impegno e partecipazione. Spesso la nostra generazione è stata definita come apatica e indifferente rispetto alla “res publica”, per dirla in latino.

Con coloro che hanno partecipato a questo progetto ho affrontato anche questo tema e sono emerse opinioni molto diverse fra loro, tuttavia quasi tutti hanno espresso un giudizio piuttosto negativo sulla nostra generazione. Essi vedono infatti intorno a loro stessi tanto individualismo e poca passione civile.

C’è chi ritiene che questo sia dovuto a chi ci ha preceduto che in qualche modo ci ha fregato, promuovendo consumismo e apparenza come valori positivi. A supporto di questa tesi c’è la testimonianza di una ragazza che dice di aver coltivato la propria passione civile, frequentando persone più grandi che avevano partecipato al ’68 e che nel tempo hanno mantenuto e coltivato i propri ideali.

L’analisi degli aspetti socio-politici di questo tema potrebbe andare avanti ancora per molto (e spero si sviluppi anche con i vostri commenti) tuttavia vorrei porre l’accento sul risvolto personale di questo “fenomeno” se così lo si vuol definire.

La cosa che più mi ha colpito nel parlare con le persone è stato infatti scoprire che molti hanno perso, del tutto o in parte, la propria passione civile nel passare dai venti ai trentanni. Le esperienze che ho raccolto sono molto diverse tra loro ma portano tutte allo stesso risultato.

Per alcuni questa indifferenza si traduce nella perdita di interesse nel fare “proseliti”.  Ciò non dipende però da una minore convinzione nelle proprie idee bensì dall’adattamento alla predominante ottica relativista. Essi non desiderano più provare a combattere contro i mulini a vento. Altri invece hanno vissuto una vera e propria perdita di passione, perchè non trovano punti di riferimento credibili tra gli attori sociali.

Tuttavia non mancano le eccezioni: alcune ragazze hanno infatti raccontato le loro diverse esperienze di impegno in ambito politico-sociale, alle quali sono arrivate proprio nei trentanni perchè più consapevoli di loro stesse.

Come in tutte le cose quando si parla di persone generalizzare non è mai corretto, credo però che per ciascuno possa essere molto interessante provare a ripercorrere le tappe della propria vita sotto la lente dell’impegno sociale, cercando di capire le ragioni che possono aver determinato eventuali cambiamenti.

Ospitata n°1 – L’estinzione dei trentenni di Zerocalcare

In questo brevissimo intervento di oggi vorrei ospitare la storia pubblicata qualche tempo fa dal disegnatore Zerocalcare, che tratta in maniera sapiente (molto più sapiente di me) l’argomento dei trentenni:

http://www.zerocalcare.it/2012/03/12/perch-non-possiamo-dirci-trentenni/

Anche questa testimonianza, insieme a quelle che ho raccolto di persona, mi serve infatti come spunto per far crescere questo progetto, che però ha anche bisogno dei vostri commenti, quindi dite la vostra! Trentenni fatevi avanti!

A 30 anni chi sono i patetici?

Prima di proseguire sul tema del lavoro, che certamente è stato uno dei temi più trattati e approfonditi nel corso delle interviste, vorrei aprire una piccola parentesi su un aspetto più socio-relazionale

Molte persone intorno a me, non soltanto quelle che hanno partecipato a questo progetto, rilevano spesso come a 30 anni si sia più consapevoli di sé, di ciò che si è. Questo ovviamente ha delle implicazioni fortissime su tutti gli aspetti della vita, ma si manifesta con maggiore evidenza nell’ambito relazionale e quindi nella sfera affettiva. 

Non voglio però ancora trattare l’argomento dei rapporti di coppia o familiari, bensì cercare di analizzare un aspetto decisamente più piccolo, che è inversamente connesso con la maggiore consapevolezza di sé  e che mi colpisce sempre più spesso: il presenzialismo.

Ora mi spiego meglio: le persone che ritengono di aver acquisito una maggiore consapevolezza di sé nel passaggio dai 20 ai 30, spesso sottolineano come questo li abbia portati ad essere più selettivi. In particolare questa selezione avviene nell’ambito del tempo libero, perché si cerca di usare il proprio tempo pensando più alla qualità che non alla quantità. Ciò non significa che si svolgano solo attività di un certo tipo -è importante non fraintendere- la qualità è assolutamente determinata a livello soggettivo. Il punto cruciale infatti non è nel cosa si fa ma nell’atteggiamento che sta alla base delle proprie scelte.

Se infatti a 20 anni, si è ancora vittime di un pensiero adolescenziale, che spesso ci porta ad essere sempre presenti agli eventi del nostro gruppo di riferimento  e non dire mai di no agli inviti degli amici, avvicinandosi ai 30 ci si affranca da questa mentalità, proprio grazie alla maggiore consapevolezza e sicurezza di sé che si acquisisce.

Non si tratta certo di uno scoop, tuttavia se non ci si ferma alla superficie si può cogliere come tale cambiamento determini un cambio -mi permetto di dire un’evoluzione- del sistema valoriale non da poco.  

L’argomento diventa ancora più interessante se si guarda il rovescio della medaglia. Vi sarà certamente capitato di incontrare o conoscere persone che non si sono arrese al passare degli anni, che inneggiano al grido di “I 30 sono i nuovi 20” e che sono passate senza soluzione di continuità da un decennio all’altro senza modificare le proprie abitudini. 

Naturalmente -come ripeto ogni volta- ciascuno vive la propria vita come meglio ritiene. Nel mio piccolo voglio invitarvi a riflettere su questo aspetto e, magari, a condividere le vostre opinioni. Non esiste giusto o sbagliato ma vorrei conoscere il vostro punto di vista.

Pensate che sia nell’ordine delle cose cambiare le proprie abitudini passando dai 20 ai 30? Ritenete invece che non ci sia grande differenza tra le due fasce d’età? Ma soprattutto cosa pensate della “fazione opposta”? 

Capita di frequente infatti sentire definire come patetici coloro che sostengono la posizione opposta alla propria. Ecco dunque che per gli uni i presenzialisti sono patetici perché visti come gli eterni peter pan mentre per gli altri i trentenni che escono meno sono dei patetici matusa. Voi come vi collocate?

L’identità passa dal lavoro?

Rileggendo gli appunti presi durante le interviste emerge chiaramente la necessità di partire trattando il tema del lavoro. Senza dubbio è un tema che oggigiorno sta a cuore a molti, non soltanto trentenni, d’altra parte è altrettanto evidente come esso sia il cardine di confronto tra la mia generazione e quella precedente che a 30 anni si era già costruita una stabilità proprio grazie al lavoro.

A questo punto ci si aspetterebbe che io parlassi di precarietà, adentrandomi nelle ben note polemiche circa la miriade di forme di sfruttamento a cui assistiamo quotidianamente senza quasi riuscire più a indignarci. Invece la riflessione da cui voglio partire è forse più sottile ma non per questo meno importante.

Permettetemi dunque una piccola digressione biografica: da bambina pensavo ci fosse una scuola per ogni mestiere e tempestavo i miei genitori con domande del tipo “Ma che scuola bisogna fare per diventare fiorista/ commesso/ cameriera etc. ?”

Questo semplice esempio, apparentemente insignificante, può invece essere preso come simbolo di come io e tanti miei coetanei siamo cresciuti nella convinzione che una determinata formazione producesse una professione specifica, seguendo quasi un rapporto di causa-effetto. L’impatto con la realtà della vita odierna ci ha costretto a cambiare idea, in quanto per un numero sempre maggiore di persone quest’equazione non vale più.

Siamo forse stati la prima generazione a vivere questo scollamento, quanto meno in termini di massa. Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici e forse neanche troppo interessanti ai fini della riflessione che voglio fare. Ciò che mi preme sottolineare infatti è l’impatto che questo scollamento ha avuto sulle persone e sul processo di costruzione dell’identità.

Sembra che le persone abbiano reagito a questo fenomeno socio-economico sviluppando due diverse scuole di pensiero: la prima che non vede più il lavoro come componente identitaria e quindi cerca la realizzazione del sé attraverso altre attività, coltivando le proprie passioni. La seconda invece continua a ritenere fondamentale l’ottenimento della professione desiderata, non soltanto per una propria realizzazione personale ma anche per avere così una riconoscibilità sociale.

Potrebbero sembrare opinioni banali ma credo che in realtà costituiscano il fulcro della vita al giorno d’oggi, specialmente per noi trentenni. Vedo infatti intorno a me sempre più coetanei che si trovano davanti a questo bivio, che non è per nulla semplice da affrontare e spesso produce frustrazione, almeno fino a quando uno non trova il proprio equilibrio.

Naturalmente ci sono anche molte sfumature in mezzo, la realtà fortunatamente è composta da infinite condizioni particolari, tuttavia credo che riflettendoci attentamente ciascuno di noi possa riconoscersi nell’una o nell’altra scuola di pensiero. Sarebbe dunque interessante capire quale punto di vista prevale, per cercare di capire se il lavoro gioca ancora un ruolo determinante nella costruzione dell’identità oppure no, per quel che mi riguarda la domanda resta aperta.

Un passo indietro

A questo punto è giunto il momento di spiegarvi bene come è nato e cosa vuole essere questo progetto. Da qualche mese (come i più attenti avranno già notato) ho compiuto 30 anni. Naturalmente il fatto di per sé non fa notizia, ma questo “giro di boa” mi ha portato a riflettere su come venga vissuta oggi quest’età rispetto a quanto accadeva nel passato. Mi sono così imbattuta in un celebre brano di Oriana Fallaci e mi sono chiesta quanti miei coetanei si riconoscessero oggi in quelle parole. Ho quindi cercato di passare dalla teoria alla pratica e, ispirandomi alla serie Avere Ventanni, ho iniziato ad intervistare conoscenti e amici per riflettere insieme sulla nostra generazione, cercando di evitare toni retorici ma non avendo paura della “banalità” perché lo scopo non è fare notizia ma cercare di ritrarci in maniera autentica. Troppo spesso infatti ci si imbatte in definizioni quali i bamboccioni o frasi fatte del tipo i trenta sono i nuovi venti, che a mio modestissimo avviso lasciano il tempo che trovano perché sono calate dall’alto. La mia ricerca invece vorrebbe raccogliere quante più voci possibili, per questo dopo lunghissime riflessioni ho scelto il blog per veicolarla. Anche questa premessa era necessaria, ma dalla prossima volta entrerò nel vivo di quanto è emerso dalle interviste che ho raccolto finora. Prima di concludere ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno partecipato e che spero animeranno queste pagine.